Dopo “Night” e “Tik Tok” sono passati altri 5 album ma nessuno di questi ha raggiunto quei vertici emozionali che la loro musica vuole trasmettere. Chi li conosce e li ascolta sa cosa aspettarsi: rock atmosferico, lentissimo e fortemente evocativo e malinconico; e soprattutto nessun orpello solistico. L’opener “Space cowboy” è l’epica e lunghissima composizione in pieno stile Gazpacho, priva di struttura portante ed una melodia solidificante, il pezzo si costruisce e avanza sorprendente sempre: l’inizio ha un cantato coinvolgente accompagnato dal piano e pad atmosferici per poi esplodere tra riff e canti gregoriani, l’impeto scema e ci prepara un finale astruso tra fughe tastieristiche e controcanti gregoriani. “Hourglass” sembra voglia sintetizzare in pochi minuti quanto precedentemente ascoltato, tra mellotron, organi, violini e canti gregoriani… ovviamente senza alcun filo conduttore. Le sonorità orientaleggianti di “Fireworker” sembrano renderlo un pezzo interessante ma poi cambia improvvisamente in numerose ed indescrivibili direzioni sonore ed è stato bravo il nuovo batterista Robert Johansen a tener testa! La successiva “Antique” procede anonima nel cantato monocolore di Jan H. Ohme. A “Sapien” è affidato il finale, ed è un altro lungo ed articolato pezzo. Inizia in un atmosfera sospesa tra pattern elettronici e pad di rara bellezza e solennità, il cantato accompagna a dovere e tra varie e brevi esplosioni e divagazioni chitarristiche si chiude sommessa e delicata come nella loro tradizione stilistica. Insomma, a parte questi 2 lunghi pezzi ricchi di spunti interessanti e coinvolgenti, l’album mi resta sconclusionato, o troppo articolato, senza mordente e senza quasi più nemmeno gli arpeggi gustosi di Vilbo o il violino di Kromer.
Best tracks: “Space cowboy”, “Sapien”. 6/10
BLACKFIELD: the new album "For the Music" postponed to 03 december 2020.
STEVEN WILSON: the new album "The future bites" postponed to 29 january 2021
GOD IS AN ASTRONAUT will release the new album "Ghost tapes #10" on 12th february 2021
Abbandonato definitivamente il progetto/sfida “ASIA featuring John Payne” nel rispetto del defunto John Wetton, l’indomito polistrumentista John Payne dà seguito al primo ed omonimo “Dukes of the orient” con un secondo capitolo. Se il guitar-hero Guthrie Govan lo aveva portato su sentieri metal-prog con i GPS, qui è il tastierista Erik Norlander a trascinarlo verso un Aor dal gusto vintage e tratti di Prog americano, sonorità che lo distinguono anche dal loro primo album e che farà felici i più attempati rockers dei seventies o eighties, deliziati di un quasi onnipresente sax. L’apertura è affidata alla genesisiana “The Dukes return” con un Norlander che fa chiaramente il verso a Banks ed un finale che rispolvera i Supertramp anche solo per l’intervento del bel sax di Eric Tewalt. La successiva “The ice is thin” è costruita sul pianoforte e voce inconfondibile di Payne, un midtempo che rimanda a quel bellissimo “Arena” degli “ASIA feat J.P.” ed ancora ai Supertramp con Tewalt che sembra la controfigura di John Hellywell. “Freakshow” addirittura ci sembra riportare agli "Emerson/Lake/Palmer“ nella sua complessità e teatralità, gran lavoro di Norlander che si dimena sapientemente anche sull’hammond. “The monitors” è più moderna negli arrangiamenti e nelle sonorità, refrain trascinante come Payne sa bene imbastire e divagazioni tastieristiche. Il Prog avanza nella bellissima “Man of machine”, che distribuisce virtuosismi per tutti, ed anche Alex Garcia si è così presentato alla chitarra elettrica. Finalmente arriva la ballad di Payne e sono brividi, “The last time traveller” è un inno per la sua magnifica voce e contiene un lungo intermezzo di soli strumentali per ogni gusto: hammond, wurlitzer, sax e chitarra elettrica. “A quest for knowledge” riporta indietro a Yes, Kansas, e Styx e quindi chorus che si amalgamano in modo stupefacente ai più arditi soli e timbriche dei musicisti (Payne si espone anche in un bel guitar-solo). Emerson è chiaramente il mentore di Norlander ed il lavoro che fa sulla bella strumentale “The great brass steam Engine” è sensazionale, tutto quello che è possibile utilizzare dal suo vasto apparato tastieristico vi è qui condensato. Gli “ASIA” di “Arena” riaffiorano in una “When ravens cry” che sciorina il versatile e sempre più sorprendente repertorio espressivo di Payne. Il finale è affidato al carezzevole Aor di “Until then”, forse datato ma sempre affascinante perché quando lo forniscono musicisti di questo calibro nulla è mai scontato, basta godersi gli ultimi due minuti del pezzo. Non nascondo che l’intero album l’ho apprezzato sempre più dopo ripetuti ascolti e questo per sottolineare come i grandi musicisti sanno farsi scoprire poco per volta!
Best tracks: “Man of machine”, “The last time traveler”, “Until then”. 8/10
Non era facile trovare un nuovo eroe del Prog pari a Steven Wilson dei Porcupine Tree ed invece possiamo ufficialmente annunciare che c’è, esiste, e si chiama Bruce Soord. Forse non si può più parlare di Prog nel suo senso storico ma di eroe musicale a tutto tondo. Già con “Dissolution” la band aveva sterzato su lidi più commerciali e sintetici, un disco modellato per esaltare il nuovo batterista: sua maestà Gavin Harrison. Con quest’ultimo “Versions of the truth” è confermata la svolta. L’artwork di copertina ben descrive i contenuti: epoca di confusione, le informazioni sono enigmatiche per la ricerca di una verità. Questa sospensione o precarietà è percepibile anche musicalmente. Mi spiego con ordine: si inizia con la splendida “Versions of the truth”, parte sussurrata per esplodere in magistrali arrangiamenti vocali supportati da una ritmica impetuosa, il puntellamento del piano e del cantato malinconico di Soord richiamano ai Genesis di gloriosa memoria…un peccato finisca così, sul più bello. “Break it all” è godibile quanto sentita e la successiva “Demons” poteva essere un bel pezzo per il Bruce Soord solistico, refrain che si fa ricordare in un atmosfera acustica ed intimistica. La ballata di “Driving like maniacs” è davvero bella e suggestiva, atmosfera sussurrata che si fa cantare, in macchina o in riva al mare alla vista di un tramonto…ma bisogna fare alla svelta perché dura poco! Si resta sulle stesse frequenze con “Leave me be”, tre accordi portanti per il ritornello e piccole divagazioni per un altro pezzo piacevole e nulla più. Il wurlitzer dei Supertramp affiora nella sussurata “Too many voices” che anticipa il pezzo più elaborato e interessante del nuovo lavoro: “Our mire”. Tutto il repertorio emerge in modo bilanciato ed efficace, ritmica superlativa, refrain vincente e note chitarristiche che rimandano a Steve Rothery dei Marillion. Ancora ultimi Marillion emergono nella bella “Out of line”, cadenzata e tanto cantabile. “Stop making sense” è un altro pezzo accennato, delicato, ben costruito e arrangiato. La chiusura appartiene alle misteriose atmosfere di “The game”, pezzo straordinario costruito sul saliscendi di un organo da brividi, accompagnato maestosamente dalla ritmica di Harrison e dalla voce sussurrata di Soord…ma non è possibile lasciarlo finire così, almeno un assolo chitarristico era dovuto, era perfetto. Insomma, se i nostri volevano lasciare musicalmente il segno di sospensione di questi cupi tempi ci sono riusciti in modo geniale ma per me resta solo un bel disco, dal vero potenziale inespresso.
Best tracks: “Versions of the truth”, “Driving like maniacs”, “Our mire”, “The game”. 7/10
La dimostrazione tecnica della band teutonica è stata ampiamente comprovata con il “Live from Hamburg” e le loro interessanti soluzioni musicali già con ottimi album come “Avoid the light” e l’ultimo “Boundless”. Ora il quartetto tedesco ha voglia di raccogliere anche consensi commerciali che superino l’etichetta di “nuovi Tool”. Il viaggio si preannuncia interstellare già con l’opener “Curiosity part 1” che poi esplode, nella part 2, in una ritmica equiparabile a “Voyage 32” dei Porcupine Tree! La successiva “Hazard” è il marchio di fabbrica della band: arpeggi chitarristici che dialogano perfettamente in un contesto ipnotico, cosmico e sempre dinamico ad esaltare i due chitarristi Jordan/Funtmann. L’elettronica si fa sempre più fitta in “Voices”, i Kraftwerk che incontrano le vecchie produzioni di Alan Parsons Project potrebbe entusiasmare ma il pezzo poi dirotta su sentieri troppo sentiti e scontati del loro sound. La breve “Fail/Opportunity” invece è più originale se non altro per il coraggioso dialogo di basi elettro-percussive con un violino che dirige l’intero motivo. Entriamo ora nel cuore cosmico con i rimandi ai Tangerine Dream di “Immunity”, un moog ossessivo spazzato via dal fin troppo conosciuto lavoro del duo chitarristico. “Sharing thoughts” suona molto per il precedente album “Boundless”, ma è bellissima nel suo crescendo ritmico. “Beyond your limits” è l’unico pezzo cantato ma lo menzionerei solo per l’ottimo basso di Hoffmann. “True/negative” vuole solo introdurre, nella sua base elettro-industrial, il finale introspettivo e floydiano di “Ashes”. Il tentativo di introdurre elementi nuovi e ariosi nel loro sound per limare la pesantezza ossessiva delle loro composizioni è apprezzabile ma non convincente, mi sembra abbiano voluto mettere al fuoco troppa carne facendo un pò confusione. Io preferisco allora la versione genuina, cruda e diretta del precedente “Boundless” nell’attesa rimodulino la loro versione più originale o commerciale, di cui capisco c’è necessità.
Best tracks: “Curiosity”, “Hazard”, “Immunity”. 7/10
AYREON will release new album "Transitus" on 25th september 2020.
Inarrestabile la sua produzione musicale, ora sempre più impegnata nel sociale. Con “All visible objects” si torna alla formula che lo ha portato al successo: tecno-dance-ambient molto avvicinabile a quel sottovalutato “Destroyed” di quasi un decennio fa. Subito l’inno tecnopercussivo di “Morningside” per una dance tribale ed anche suggestiva, perché Moby sa come essere originale e fare un disco che “acchiappi”, per questo trovo interessante l’utilizzo di un inspiegabile organo. Una frase, stile “Porcelain”, ai tasti d’avorio è la struttura portante della bellissima “My only love”, che alla sublime voce di Mindy Jones annovera tappeti tastieristici davvero coinvolgenti. Ancora tecno-dance tribale con “Refuge”. “One last time” è lo standard classico del disco: atmosfera ambient e voci sintetizzate e sussurrate. Con la successiva “Power is taken” si torna ad una tecno molto cibernetica, e chi avesse bisogno di un momento più riflessivo è accontentato dall'interpretazione vocale di Apollo Jane in “Rise up in love “. Da questo momento i pezzi diventano sempre più ambient ed eterei: bellissima “Forever”, in cui vi confluisce tutto il repertorio del Moby ipnotico, ed interessante anche la più intima e fin troppo lunga “Too much change”. C’è spazio anche per l’ambient più minimal di “Separation”, un piano puntellato nello stile di Brian Eno. “Tecie” è un ulteriore viaggio ipnotico tra sommessi ritmi tribali e stilosi tappeti tastieristici. Il finale è sviluppato da un lungo e lento fraseggio al pianoforte potenziato da un synth che evochi anche quel tono drammatico alla malinconia generale di questa “All invisible objects”. Bel disco ma senza picchi che si lasciano ricordare a lungo.
Best tracks: “My only love”, “Forever”, “Tecie”. 7/10
Il loro esordio “Identity” li lanciò tra le migliori prospettive del panorama progressive di stampo floydiano. Dopo undici anni giungono al quinto tentativo di conferma tra diversi lavori un pò spenti, stanchi, troppo scontati, forse a causa della creatività in parte mozzata di Bjorn Riis. Il chitarrista più gilmouriano del circuito mondiale ha dedicato infatti alla carriera solista molte idee buone, utilizzabili nella sua band. Questo “A day at the beach” invece sembra partire col piede giusto: “Machines and men” preannuncia un certo grado di elettronica di fondo, interessantissimo. In un cyber-atmosfera il brano cresce nelle ritmica ed il cantato di Tostrup si sposa perfettamente. Bello il refrain, bello il solo di Riis, un magnifico inizio! La prima parte di “A day at the beach” è un breve e pacatissimo accenno della successiva seconda. Prima però ci sono “Into the unknown”, che sembra uscita dai Radiohead più minimal nella prima parte e dai Pink Floyd di “Division bell” nella seconda, e “Sunsets” una vera summa del loro stile musicale e delle loro capacità tecniche (Riis ancora in grande evidenza). Si giunge al cuore dell’album dopo le belle premesse descritte: la seconda parte di “A day at the beach” è tra i vertici assoluti della loro produzione. In un ambiente cosmico e very dark si staglia un arpeggio vincente e ripetuto come un mantra che ci proietta in un salto quantico, onirico ed emozionale. Il fraseggio finale di Riis è la classica ciliegina di un capolavoro. Non paghi del loro incredibile lascito, i ragazzi norvegesi ci catapultano direttamente nelle atmosfere del loro monumentale “Identity”: “ Megalomaniac” è un vero tributo alle atmosfere di quell’album. Lenta, trascinata da un arpeggio magnifico e dalla voce straziata di Tostrup culmina ancora nella feroce performance di Riis, impagabile questa volta nel suo apporto all’album. Forse non è al livello di quel best seller d’esordio, ma “A day at the beach” è da avere assolutamente nella propria collezione soprattutto con le premesse di quest’ elettronica che potrà fare la differenza non solo creativa per il futuro della band.
Best tracks: “Machines and men”, “A day at the beach p.2”, “Megalomaniac”. 8/10
BLACKFIELD will release the new album "For the Music" on 02th october 2020.
FISH will release the new album "Weltschmerz"" on 25th september 2020.
GAZPACHO will release the new album "Fireworker" on 18th september 2020.
THE PINNEAPPLE THIEF will release the new album "Versions of truth" on 04th september 2020.
DUKES OF THE ORIENT will release the new album "Freakshow" on 07th august 2020.
LONELY ROBOT will release the new album "Feelings are good" on 17th july 2020.
Dal suo “surf” capolavoro del 1987 la marcia produttiva del guitar-hero è stata inarrestabile e costante, e con questo “Shapeshifting” siamo al diciassettesimo sigillo. Satriani presenta la line-up (Chris Chaney al basso e Kenny Aronoff alla batteria) con la sua stilistica “Shapeshifting” giocata su una sua frase melodica ripetuta e lavorata come lui sa magistralmente fare. “Big distorsion” ha un sentore “Aor” alla Toto o Journey. Arriva la prima ballad e con essa le prime vere emozioni, “All for love” ha fraseggi meravigliosi. Più articolata e complessa da un punto di vista compositivo è l’orientaleggiante “Ali farka, dick dale…”. Ritmica secca e bluesy accompagnano come una jam la performance di Joe in “Teardrops”. “Perfect dust” è un rock-blues esemplare e coinvolgente, dal mood cangiante. La successiva “Nineteen eighty” è un bel demo (anche primo “single”) del suo vasto repertorio. Anonima “All my friends are here” e più interessante la più veloce e trascinante “Spirits, ghosts and outlaws”. Atmosfere soft ed arrangiamenti ben congeniati e costruiti per “Falling stars”, ancora fraseggio chitarristico in bell’evidenza. Sul pianoforte ruota la breve e splendida “Waiting” magistralmente puntellata dall’elettrica. Se il disco voleva essere più sperimentale, non poteva mancare anche un reggae personalizzato (“Here the blue river”) e un country finale (“Yesterday’s yesterday”). Ancora una volta un bel disco di Satriani, non sempre riuscito ed ispirato… ma ammirevoli anche solo le buone intenzioni di cercare qualcosa di diverso, nuove soluzioni in un genere ormai saturo.
Best tracks: "All for love", "Falling stars", "Waiting". 7/10
Nick Barrett non ha mai fallito e non poteva farlo dopo 6 anni dall’ultimo “Men who climb mountains”. Ritorno a sonorità più leggere, ariose e prog dei primi lavori, quelli degli anni 90’, quelli che li hanno cristallizzati tra le migliori band prog britanniche e non solo (e lo si capisce anche dall’artwork tornato ad uno “stile artigianale” dopo le “avvisaglie digitali”) . Solita line-up a parte il ciclico saliscendi “sulle pelli”, ora figura l’ottimo Jan Vincent Velasco alla batteria. Già dall’iniziale “Everything” si percepisce il cambio di direzione stilistica dagli ultimi lavori più metal e sperimentali, una specie di inno del loro sound degli esordi, con proprio tutti gli elementi compositivi che li hanno caratterizzati. La successiva “Starfish and the moon” è un altro pezzo alla Pendragon, questa volta meno ritmo e tanto sogno: la voce di Barrett accompagnata dal piano in un atmosfera eterea e carezzevole. Con questo riscaldamento si impenna l’asticella forse al picco massimo: “Truth and lies”. Contagioso arpeggio di chitarra barrettiana, sostenuto da tappeti tastieristici degni del miglior Nolan aprono il pezzo fino ad esplosione sonora da brividi. Assolo struggente, stiloso, gustoso, straordinario all’elettrica di Barrett degna del miglior Gilmour. Ancora un inchino a questo straordinario chitarrista che trascina come pochissimi sul manico della sua tastiera. Ogni sua nota è una gemma nel cuore...e si riacquieta ancora nel bellissimo arpeggio iniziale. “360 degrees” rappresenta la voglia più spudorata di recuperare certe radici folk con tanto di violini e mandolini (ukulele) che firmano il pezzo più barocco dell’album. Solo una parentesi perché “Soul and the sea” ci ricatapulta nelle atmosfere di “Truth and lies”: ancora arpeggi e violini di fondo e da preludio, 4 note sospese (ma ben impresse) al piano ed il brano esplode in un refrain irresistibile. Nolan detta i tempi e Barrett lo segue in un tripudio vorticoso, carico di elettricità e pathos maestoso. Bellissima! Non c’è tempo di rifiatare perché la successiva “Eternal light” parte subito carica e con grande ritmica di Velasco. Questa volta gli arpeggi si alternano tra quelli di Nolan e di Barrett e comunicano con un falsetto di cori tastieristici fino all’ennesima esplosione chitarristica di Barrett che prima rimarca il motivo con la sei corde e poi finisce in un altro assolo favoloso, tenendo le note come in pochi sanno fare. Tutto verrà giustamente ripetuto ed intervallato da notevole intermission tastieristica. Entusiasmante! Serviva un brano decompressore e giunge la pacata “Water”, che permette prima a Velasco di dimostrare velatamente tutto il suo gusto e poi a Barrett di tirare fuori l’ennesimo guitar-solo da applausi scroscianti. Le note di pianoforte su “Whirland” richiamano prima il romanticismo dei Genesis e poi la pomposità degli Yes (Wakeman) fino all’inserimento di un sassofono che segna il pezzo in un’inconsueta e rarefatta atmosfera. C’è ancora spazio per articolare un brano più tirato ed epico, da collegamento con l’album precedente, prog puro alla Pendragon che riconsegna lo scettro a Barrett, si dimena tra cantato (molto riuscito), acustica in accordi e arpeggi e poi solo sulla sua fida elettrica ben accompagnato dai tamburi di Velasco. A chiudere questo bellissimo album servirebbe una specie di “Am I really losing you?” e quindi ci è servita una degna gemella, costruita più sul lavoro di Nolan, egregio ed ispirato chiude con una sequenza tastieristica che lascia il segno, al cuore. Non ha invenzioni o genialate ma è tra gli album più belli della band assieme a “Not of this world” e “Passion”, dopotutto i Pendragon hanno sempre mantenuto un altissimo livello di Musica (incompresa ai più).
Best tracks: "Truth and lies", "Soul and the sea", "Eternal light". 8/10
CONCEPTION will release the new album "State of deception" on 10th april 2020.
AIRBAG will release the new album "A day at the beach" on 19th june 2020.
STEVEN WILSON will release the new album "The future bites" on 12th june 2020
STEVEN WILSON in tour:
Date in Italy: Milano, 23 september 2020, Mediolanum Forum Assago.
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