Abbandonato definitivamente il progetto/sfida “ASIA featuring John Payne” nel rispetto del defunto John Wetton, l’indomito polistrumentista John Payne dà seguito al primo ed omonimo “Dukes of the orient” con un secondo capitolo. Se il guitar-hero Guthrie Govan lo aveva portato su sentieri metal-prog con i GPS, qui è il tastierista Erik Norlander a trascinarlo verso un Aor dal gusto vintage e tratti di Prog americano, sonorità che lo distinguono anche dal loro primo album e che farà felici i più attempati rockers dei seventies o eighties, deliziati di un quasi onnipresente sax. L’apertura è affidata alla genesisiana “The Dukes return” con un Norlander che fa chiaramente il verso a Banks ed un finale che rispolvera i Supertramp anche solo per l’intervento del bel sax di Eric Tewalt. La successiva “The ice is thin” è costruita sul pianoforte e voce inconfondibile di Payne, un midtempo che rimanda a quel bellissimo “Arena” degli “ASIA feat J.P.” ed ancora ai Supertramp con Tewalt che sembra la controfigura di John Hellywell. “Freakshow” addirittura ci sembra riportare agli "Emerson/Lake/Palmer“ nella sua complessità e teatralità, gran lavoro di Norlander che si dimena sapientemente anche sull’hammond. “The monitors” è più moderna negli arrangiamenti e nelle sonorità, refrain trascinante come Payne sa bene imbastire e divagazioni tastieristiche. Il Prog avanza nella bellissima “Man of machine”, che distribuisce virtuosismi per tutti, ed anche Alex Garcia si è così presentato alla chitarra elettrica. Finalmente arriva la ballad di Payne e sono brividi, “The last time traveller” è un inno per la sua magnifica voce e contiene un lungo intermezzo di soli strumentali per ogni gusto: hammond, wurlitzer, sax e chitarra elettrica. “A quest for knowledge” riporta indietro a Yes, Kansas, e Styx e quindi chorus che si amalgamano in modo stupefacente ai più arditi soli e timbriche dei musicisti (Payne si espone anche in un bel guitar-solo). Emerson è chiaramente il mentore di Norlander ed il lavoro che fa sulla bella strumentale “The great brass steam Engine” è sensazionale, tutto quello che è possibile utilizzare dal suo vasto apparato tastieristico vi è qui condensato. Gli “ASIA” di “Arena” riaffiorano in una “When ravens cry” che sciorina il versatile e sempre più sorprendente repertorio espressivo di Payne. Il finale è affidato al carezzevole Aor di “Until then”, forse datato ma sempre affascinante perché quando lo forniscono musicisti di questo calibro nulla è mai scontato, basta godersi gli ultimi due minuti del pezzo. Non nascondo che l’intero album l’ho apprezzato sempre più dopo ripetuti ascolti e questo per sottolineare come i grandi musicisti sanno farsi scoprire poco per volta!
Best tracks: “Man of machine”, “The last time traveler”, “Until then”. 8/10