Dopo “Night” e “Tik Tok” sono passati altri 5 album ma nessuno di questi ha raggiunto quei vertici emozionali che la loro musica vuole trasmettere. Chi li conosce  e li ascolta sa cosa aspettarsi: rock atmosferico, lentissimo e fortemente evocativo e malinconico; e soprattutto nessun orpello solistico. L’opener “Space cowboy” è l’epica e lunghissima composizione in pieno stile Gazpacho, priva di struttura portante ed una melodia solidificante, il pezzo si costruisce e avanza sorprendente sempre: l’inizio ha un cantato coinvolgente accompagnato dal piano e pad atmosferici per poi esplodere tra riff e canti gregoriani, l’impeto scema e ci prepara un finale astruso tra fughe tastieristiche e controcanti gregoriani. “Hourglass” sembra voglia sintetizzare in pochi minuti quanto precedentemente ascoltato, tra mellotron, organi, violini e canti gregoriani… ovviamente senza alcun filo conduttore. Le sonorità orientaleggianti di “Fireworker” sembrano renderlo un pezzo interessante ma poi cambia improvvisamente in numerose ed indescrivibili direzioni sonore ed è stato bravo il nuovo batterista Robert Johansen a tener testa! La successiva “Antique” procede anonima nel cantato monocolore di Jan H. Ohme. A “Sapien” è affidato il finale, ed è un altro lungo ed articolato pezzo. Inizia in un atmosfera sospesa tra pattern elettronici e pad di rara bellezza e solennità, il cantato accompagna  a dovere e tra varie e brevi esplosioni e divagazioni chitarristiche si chiude sommessa e delicata come nella loro tradizione stilistica. Insomma, a parte questi 2 lunghi pezzi ricchi di spunti interessanti e coinvolgenti, l’album mi resta sconclusionato, o troppo articolato, senza mordente e senza quasi più nemmeno gli arpeggi gustosi di Vilbo o il violino di Kromer.
Best tracks: “Space cowboy”, “Sapien”. 6/10