L’inarrestabile, e direi anche infaticabile, guru del Prog lancia sul mercato un disco che era già pronto per l’inizio del 2020 (con relativo e pianificato tour), ma l’avvento del “progetto Covid“ ha fatto posticipare l’uscita per ragioni ovviamente di marketing. E visto che il disco era stato annunciato con chiari intenti commerciali e aperture verso un pubblico sempre più ampio, la decisione era obbligata. Questo straordinario artista è rimasto sempre coerente come pochi: ha dedicato la sua vita alla Musica (ora si è anche sorprendentemente sposato!) e ha sempre voluto esplorarla in tutte le sue forme, attraverso tanti progetti, band, collaborazioni ed artisti di ogni estrazione musicale. Non elenco qui ed ora il suo lungo ed articolato percorso, dai Porcupine Tree ad oggi. Già con il capolavoro “Hand, cannot erase” aveva iniziato ad esplorare sonorità più moderne e danzerecce, non facendo mai mistero della sua passione per l’elettronica. Con il penultimo “To the bone” aveva mantenuto la sua band di base, musicisti consolidati nell’ambiente Prog, ora, qui,  li abbandona senza indugi per fare un vero disco pop. I suoni si fanno asciutti, sintetici ed acidi… in linea con il progetto grafico  ed il tema generale trattato nell’album: la società degli algoritmi e della dipendenza dai social manipolatori, della shopping terapia fuori controllo e dell’individuo senza un identità. L’intro è affidata al breve beat di “Unself” che apre le porte invece a “Self”, un inno alla dance dei novanta intrisa della sensualità ritmica di quel Prince già molto “citato” in “To the bone”. “King ghost” si veste di una serie di vocalizzi davvero inediti per uno Steven che vuol calarsi nel seducente ruolo di pop-star, la musica lo accompagna nell’incedere di un sussurrato drum and beat, molto coinvolgente. La successiva “12 things I forgot” è un single a tutti gli effetti, è suonata in un modo più classico e con un refrain avvincente. Se “Permanating” aveva tanto fatto discutere su “To the bone”, questa “Eminent sleaze” non sarà da meno: è un funk groove con coretti parecchio discutibili. Finalmente arriva il pezzo più bello, direi meraviglioso: la floydiana “Man of the people”. Una base dettata da un rullante effettato in cui si tesse la voce del nostro Steven, sempre più bella all’interno di una melodia sequenziata, e come su “Perfect life” diventa un crescendo incantevole in cui trova spazio anche un azzeccatissimo vocoder. La più lunga e centrale “Personal shopper” rappresenta l’inno dell’intero disco, sintesi di un elettronica moderna  e danzereccia alla Giorgio Moroder, canti e controcanti si intrecciano e conducono ad un finale acido ed effettistico, un viaggio che mi ha ricordato la lontanissima, primordiale “Voyage 34” con i Porcupine Tree. La successiva “Follower” può apparire pop song dal ritornello ruffiano e banalotto, in realtà è costruita in un modo geniale con un utilizzo dell’elettronica impeccabile ad ogni estremo, così ben fusa con gli strumenti classici che menano le danze, piano e batteria su tutti. Il finale, come spesso accade nella sua produzione, è affidato ad un pezzo intimista  e pacato. “Count of unease” scompare tra suoni ambient e pad. Sicuramente è un disco che può destare perplessità e malcontento, per la sua ipersemplicità e scontatezza compositiva… ma può essere anche contagiato dai temi trattati, allora si, ancora una volta geniale e provocatorio. In ogni caso preferisco un artista che si espone in tutte le sue esplosive sfumature che quello che si ripete furbescamente nel prodotto che gli ha dato successo.                     Best tracks: “Man of the people”, “Personal shopper”, “Follower”. 7/10