Già con il precedente lavoro la band tedesca cercava soluzioni alternative, tentativi a non ripetersi, rinnovarsi sempre. Con questo nuovo album è abbandonata l’elettronica che aveva un pò troppo confuso e destabilizzato il loro sound e stile ma il risultato non cambia molto: apprezzabile il tentativo, ma bersaglio quasi fallito o, meglio, non proprio raggiunto. A parte qualche episodio, si resta su territori già battuti in lungo e largo e spesso senza “un filo d’Arianna”. Riff martellanti e arpeggi che tracciano la linea melodica, sezione ritmica travolgente e precisa al metronomo sono gli ingredienti base del loro Sound che qui cerca di connotarsi in una versione più Prog o, meglio, Metal-Prog. Si parte con le malinconiche note al pianoforte di “Enter: death box” che annuncia “Blades”, un vero marchio di fabbrica: chitarre ruggenti che dialogano e costruiscono continue soluzioni armoniche ed una ritmica serrata che non lascia respiro. Nella successiva “Kamilah” si annusa qualcosa di nuovo: prima una chitarra che stende una melodia e che apre a sua volta la porta ad una sequenza al fulmicotone, poi un delicato intreccio di arpeggi disegna invece un'atmosfera contemplativa e davvero coinvolgente che cresce di tono con un bellissimo fraseggio finale. I King Crimson affiorano con “500 years”, suoni distorti ed astrusi costruiscono un’atmosfera ipnotica in cui si staglia un lamento stridulo che esplode in una sequenza ritmica degna dei migliori Tool. “Sloth” è il pezzo più originale dell’intero album: geniale come un sax si inserisca in un contesto come quello già ampiamente descritto e lo fa in un modo splendido, sublime. Sax che inizialmente tesse la melodia e la stessa atmosfera incantata, e poi inizia a dialogare magicamente con una chitarra prima arpeggiata e che poi fionda in un sontuoso fraseggio solistico. Il duello chitarristico Jordan/Funtmann costruisce l’intera “Giants leaving” tra saliscendi continui. La dinamica e l'articolazione ritmica è costitutiva di “Blood  Honey”, che rimanda ai primissimi lavori ed a certi sentori Prog dei Gods is an Astronaut. Più ariosa è “Landless king” che sciorina una bella linea di basso e le celebri fughe chitarristiche. La finale “Eraser” è anche il testamento lirico dell’album: la lenta distruzione della natura e l’estinzione della specie a causa sempre dell’uomo. Un motivo arpeggiato ed ipnotico  traina il brano inizialmente tirato ma poi adagiato in una dimensione più struggente con l’utilizzo anche del violino. I pezzi sono belli, la cover art è bella, la produzione è notevole, eppure l’album non convince, non grida al capolavoro a cui invece potrebbero aspirare, perché suonano alla grande e cercano sempre l’esplorazione in un contesto musicale commercialmente difficilissimo. Al prossimo tentativo allora.   Best tracks: “Kamilah”, “500 years”, “Sloth”. 7/10